La compresenza e la stratificazione sono un dono, quando riescono a essere limpide. Per riuscirci, la pittrice Agnes Martin ha esercitato la concentrazione per tutta la sua vita, anche quando non stava dipingendo quadri.

Le cose che mi sorprendono, dei pittori, riguardano il fatto che in genere non sono solo pittori. Forse perché mi sembra un processo così lungo, la produzione di un’opera d’arte in tutte le sue fasi, che rimango davvero impressionata quando riescono a dedicarsi anche ad altro. Tipo essere un’insegnante, una nuotatrice, una costruttrice di case. E, nel 1997, ricevere comunque il Leone d’oro alla Carriera alla Biennale di Venezia.

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particolare da Summer, 1964

La vita e la fatica

Nata nel 1912 in una fattoria canadese, a soli due anni Agnes Bernice Martin perde il padre. La madre decide di trasferirsi con i quattro figli a Vancouver, dove Agnes cresce soprattutto con il nonno, mentre la famiglia si occupa di ristrutturazioni e della gestione di una pensione. Crescendo, Agnes si guadagna da vivere facendo la playground director, l’insegnante di tennis, l’aiutante in forneria, l’impacchettatrice di gelati, la receptionist, la custode, la sorvegliante di carcerati minorenni, la responsabile di cinque macchinari per l’imballaggio del fieno, la lavapiatti per tre volte, la cameriera molte di più. Si afferma anche come nuotatrice, partecipando alle selezioni per entrare nel team delle Olimpiadi.

Studia per diventare un’insegnate di arte al Teachers College della Columbia University. Un anno dopo, quando ne compie trenta, decide di non insegnarla solamente, ma di praticarla anche, approfondendo gli studi in ritrattistica, acquerelli e paesaggistica all’Università del New Mexico e poi di nuovo alla Columbia University.  Sono anni di estrema povertà, in cui Agnes si ingegna a dormire sul pavimento del suo studio, anche quando decide di trasferirsi a Taos nel 1954: qui i soggetti dei suoi quadri si concentrano soprattutto sulle variazioni del biomorfismo, procedendo sempre di più verso l’astrazione.

Non ho usato i termini pratica e concentrazione casualmente, riferendomi all’arte di Agnes: in effetti, quella a cui si sottopone nel proprio atelier, non solo a Taos ma durante la sua intera vita, è una vera e propria pratica, che inizia con l’attesa e termina con la calma. E con un dipinto, ovviamente.

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Harbor Number 1, 1957

Nel 1957 si presenta alla sua porta la gallerista Betty Parsons con una proposta: la aiuterà a costruirsi una carriera se tornerà a vivere a New York. Agnes accetta e si stabilisce in una comunità di artisti nella lower Manhattan, condividendo lo spazio con Robert Indiana, Jack Youngerman, Ann Wilson, Lenon Tawney, Jasper Johns, Robert Rauschenberg e Barnett Newman.

In questo periodo, la sua vita si complica a causa della schizofrenia: Agnes Martin sente voci e vede persone che non esistono, e, nonostante il ricorso a terapie mediche, riesce a non vivere la sua malattia come un vero problema. Interroga queste voci e persone sulla sua arte, chiede consigli riguardo la propria vita e, quando le cose si fanno troppo difficili, decide semplicemente di ritirarsi e viaggiare, invece di dipingere.
Nel 1967 lascia definitivamente New York, viaggia per diciotto mesi in camper e si stabilisce in New Mexico, dove spenderà quasi tutto il resto della sua vita, a parte i frequenti viaggi. Qui costruisce case e studi, tutto con le sue mani, anche i mattoni.

The silence on the floor of my house
Is all the questions and all the answers that have been known in
The world
The sentimental furniture threatens the place
The reflection of a sunset speaks loudly of days.
dai diari di Agnes Martin

Nel 1974, dopo una pausa di sette anni, torna a dipingere.

I quadri e la calma

A metà degli anni Settanta Agnes Martin è ormai un’artista affermata, continuamente rimbalzata dalla critica tra Astrattismo, Suprematismo e, a volte, anche Espressionismo. C’è chi la accosta a Malevič, chi la inscrive nella corrente taoista –  filosofia a cui la Martin faceva, di fatto, riferimento. E, in effetti, ascoltando le sue lezioni o leggendo tra i suoi appunti, abbiamo sempre l’impressione di imparare molto di più sulla vita che sull’arte in sé e per sé. Per esempio, parlando di un quadro che le ha richiesto più tempo e concentrazione del solito, non ha parole di frustrazione o di esaltazione artistica, ma dice semplicemente: «Ho impiegato questi dieci anni a dipingere una lode».

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Appunti di Agnes Martin

Questo perché i quadri di Agnes Martin non nascono separati dalla realtà, ma sempre «in the midst of reality» – e, allo stesso tempo, sono progetti di reazione.
Concepiti come antidoti alla distrazione quotidiana, sono sforzi di concentrazione prolungata, di immersione nella calma, di appropriazione del tratto e del suo dileguamento. La mano di Agnes è celata nell’apparente impersonalità dei suoi quadri e continuamente palesata dall’irregolarità delle linee e dalle intermittenze dei segni.
Sono per lo più dipinti quieti, non chiassosi o vistosi: riescono a trattenere i nostri occhi senza prepotenza.

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Untitled, 1977

Karen Schiff si è interrogata su come si possa provare gioia da una geometria continuamente ripetuta. La verità, dice, è che la calma appagante che proviamo guardando i dipinti della Martin viene più che altro dai suoi colori: grazie alla patina bianca usata come ultima mano per rendere l’insieme ancora più delicato, ogni suo quadro sembra diffondere una luce («glow»).

I suoi occhi erano impeccabili e rigorosi.
Karen Schiff

E i tremolii della sua mano ci regalano in realtà un’occasione in più per osservare attentamente il suo lavoro: l’estrema semplicità delle sue composizioni è continuamente vivificata dalle piccolissime variazioni del tratto che le compone, rendendole leggermente diverse da qualsiasi punto le si contempli. Questa riscoperta, che la Schiff chiama «the dance of different distances», ci porta a muoverci davanti a ogni quadro di Agnes Martin, ad avvicinarci e allontanarci di qualche passo, a sederci, a continuare a guardare.

E io, che non ho mai amato l’arte astratta perché l’ho sempre trovata troppo esigente, riesco a capire perfettamente queste intenzioni. Nei quadri di Agnes Martin, proprio perché così quieti, lo sguardo non si concentra su qualcosa di definito, non si interroga e non tenta di indovinare le intenzioni dell’artista, e per questo può andare oltre – e rivolgersi a se stesso.

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Stars, 1963

Per Agnes Martin, l’arte è un modo di salvarsi – non dalla vita, ma con la vita stessa. Di portarla con sé ogni giorno, ma in un modo accettabile. Per questo inizialmente ho definito il suo lavoro come una pratica: un impegno spirituale e fisico al tempo stesso – cinque minuti di meditazione mentre sei sul tram per andare a lavoro. Questo lavoro ripetitivo, concentrato in se stesso, è il modo che Agnes aveva escogitato per «stabilire un ordine nel suo mondo visivo e percettivo ed emozionale» (Nancy Princenthal).

What we make is what we feel.
Agnes Martin

Da quando ricomincia a dipingere nel 1974 e fino alla sua morte, i titoli dei suoi quadri contengono sempre riferimenti gioiosi, come Fiesta, 1985 o Happy Holiday, 1999 o Loving Love, 2000. Forse inaspettatamente, infatti, nonostante la malattia, la povertà e la vita quasi monacale, condotta quasi sempre ai limiti del deserto, Agnes Martin è una persona che custodisce e cerca la felicità in continuazione. Una delle sue preferite è quella che ti senti addosso e già in viso quando ti svegli al mattino: quella inaspettata, che non ha ragione. Una felicità astratta.

Happiness is being on the beam with life – to feel the pull of life.
Agnes Martin

 

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