Lasciare una casa è chiudere una storia d’amore. I gesti che hai memorizzato, le abitudini che hai acquisito, le tenerezze che hai imparato a sincronizzare: tutto perso per sempre. Come l’interruttore del bagno che è a sinistra, la giusta pressione da dare al tasto per chiamare l’ascensore, il sole che d’inverno la mattina ti riempie il letto, perfino la routine dei vicini che alle sette e dieci danno la doppia mandata. Tutti i difetti che hai imparato ad amare e quelli per cui ti lamenti ancora dopo anni, le migliorie che hai progettato con cura e gli oggetti che hai salvato un po’ sbronzo all’Amsa – anche nelle città in cui non si chiama così. La velocità con cui si asciugano i vestiti d’estate, la punta dei piedi su cui ti metti per prendere le pentole, il colpo che devi dare alla chiave per farla girare bene e stare tranquillo. Anche il riflesso della luce sulle finestre della casa di fronte. Da un giorno all’altro, queste sono tutte cose che non ha più senso sapere.
È una relazione interrotta, quella tra e la casa, che non puoi più praticare.
Una volta, su un divano di una casa che non vedrò mai più, ho detto che ogni storia d’amore finita è una lingua morta. Spero di averlo pensato io per prima e non averlo rubato a qualcuno, perché è detto bene. C’era una lingua e a parlarla erano almeno in due e per questo era viva, fatta di linguaggio verbale e paraverbale, di suoni e di significanti che funzionavano. Quando non viene più parlata, una lingua non c’è più: non esistono contesti per esercitarla, mancano le parole per allenarla, i punti di riferimento sono terminati. È diventata, né più né meno, una lingua morta.
Senza contare quelle in cui sono tornata più di una volta, pare che in ventisette anni abbia cambiato quindici case. Sono quindici lingue che ho imparato a parlare e poi smesso. Sono quindici storie d’amore che ho iniziato e poi perso. Sono quindici porte diverse. Sono quindici bagni diversi. Sono quindici soffitti diversi che ho guardato ogni notte con gli occhi che sono diventati sempre più miopi.
Questa è la storia delle case.
casa sconosciuta | 1991
Ho appena letto un libro molto piccolo in cui l’autrice confida che pensa di essere stata destinata a essere romantica fino al midollo perché presente, nella pancia della madre, al matrimonio dei suoi. Se così fosse, io nella casa sconosciuta #1 ci sono stata prima di esserci: è già tutto lì, in mia madre incinta di me che pittura le pareti e mio padre architetto che progetta case per altri. In questa, di casa, ci ho abitato poi solo un paio di mesi.
casa che profuma | 1991
In questa casa ho abitato poche settimane, quattro o sei appena, ma è importantissimo che io appena nata sia qui. È la casa di mia zia e mio zio, che rimarrà negli anni sempre uguale, sempre perfetta, specchiata e quietissima. Di quel periodo mia zia mi ha detto sempre e immancabilmente fino a quando, da due anni, non me lo può dire più, che poi il mio profumo di bambina è rimasto in quelle stanze per mesi. La casa profumava di te era la prima cosa che mi diceva sempre. Ora ci vive solo mio zio, il frigorifero è vuoto se non per i crodini, che è tradizione offrire quando andiamo a trovarli. Trovarlo.
via ramella, 2 | 1991
Qui abitiamo in un condominio che per me è altissimo e invece, ho controllato l’anno scorso, ha solo tre piani. Noi abitiamo all’ultimo e io ho un letto francese con la testata d’ottone in cui occasionalmente dormo con tutto quello che amo, compreso un paio di sandaletti in plastica arancione che tengo accanto al cuscino. Mi addormento negli armadi, smonto aspirapolveri, coloro le pareti bianchi con il labello rosa, con mio padre facciamo aeroplanini di carta e li incendiamo e li lanciamo dal balcone. Io ovviamente non posso fare nessuna di queste tre cose perché sono ancora troppo piccola.
casa dei miei | 1996–2010
È la casa della discordia, quella costruita per due persone in cui finiscono con lo stringersi tre, poi quattro, poi cinque. Ma è anche la casa con il soffitto in legno a spioventi, in cui entra una luce caldissima che ancora commuove, in cui c’è così tanto verde attorno che quando ci trasferiamo papà e io giochiamo a essere dinosauri in fondo al giardino e c’è l’erba così alta che mi supera e mi nasconde. E penso sarà così per sempre. Ma non era la casa fatta per noi e venti anni più tardi viene ancora detto.
via santo stefano, 78 | 2010
È la prima casa in cui vado ad abitare dopo la mia casa. Ma ci vivono anche un sacco di altre ragazze, troppe, e c’è sporco e confusione e io rimango il più possibile fuori e per fortuna fuori c’è Bologna: è così che mi innamoro della città, per una casa in cui non c’è modo di stare. Da quella stanza condivisa, la prima e ultima doppia della mia vita, vado via dopo quattro mesi.
via de’ musei, 5 | 2011
Quando Angelo e mamma verranno ad aiutarmi a traslocare mi chiederanno come abbia fatto a viverci quei mesi. Così in alto non ho più abitato, è il quarto piano ma è un palazzo stretto e altissimo, sono praticamente in piazza Maggiore. La casa è minuscola, vecchissima, il frigorifero è un mini frigo e nel bagno, piastrellato di marrone, non puoi veramente muoverti. Nella camera, che lascio completamente spoglia, passo le settimane a letto mangiando cereali dalla scatola e poi a volte più niente. È la casa in cui scopro la depressione.
vicolo broglio, 6 | 2011–2012
È un monolocale con soppalco in cui viviamo in due con un gatto. È soffocante perché l’altra persona ha portato tutto quello che possiede, il che un po’ me la fa odiare e un po’ mi fa rendere conto che non possiedo così tanto. Ma è anche la casa in cui comincia la tradizione di invitare amici a cena, amici a merenda, amici a chiacchierare. È la casa in cui il 20 maggio alle quattro spalanco gli occhi perché sembra di essere in mare, tutto si muove in un modo a destra e sinistra e sono a letto da sola con il gatto e sono terrorizzata, c’è un rombo assordante e le cose ondeggiano. È la casa in cui scopro il terremoto e in cui la mia prima storia d’amore finisce, in cui però comincia anche la rinascita, quando torno a casa col caldo cocente di giugno e luglio e spalanco le finestre e appoggio il minuscolo netbook blu sul davanzale e rimango in piedi con i gomiti appoggiati a fissare i tetti rossobologna del centro e vedere il tramonto e inizio a stare da sola, ma in modo diverso. È la casa in cui scopro cosa mi piace.
via zaccherini alvisi, 4/6 | 2012–2013
La prima volta che lascio le mura di Bologna. La prima volta che ho una stanza tutta mia che sento abbastanza mia, che curo e decoro, la prima volta che vivo con altre due persone che si aprono abbastanza da farmi riconoscere cosa significa abitare con altri. Ma è anche la casa di cui riconosco la freddezza, la convivenza costretta, il patteggiamento silenzioso e costante.
via guerrazzi, 19 | 2013
In questa casa mi fermo solo quattro mesi, perché uno dei coinquilini ha deciso di provare ad ammazzarci con il gas del fornello prima di natale. In questi quattro mesi, però, scopro che mi piace cucinare e mi laureo. Ho il letto direttamente sotto la finestra e la finestra è di fronte a quella delle aule di geografia dell’Alma mater, quindi capita che il mattino quando apro le imposte mentre sono con le ginocchia sul cuscino e in pigiama ci sia qualche studente o qualche professore che mi fissi dritto negli occhi, perché via Guerrazzi in fondo è davvero stretta. È qui che, per la prima volta, scopro i piaceri della vita di quartiere.
via masi, 53 | 2014–2016
La prima volta che metto piede in via masi è il 2012. Quindi, a ben contare, questa è la casa che è stata più casa di tutte, per intensità e per durata. È l’epitome delle mie case, perché per la prima volta so che cosa voglio e cerco in una casa. E via masi me lo dà: mi dà il balcone su cui stendere i panni e bere la birra d’estate, mi dà la luce sfacciata, mi dà gli amori che finiscono e quelli che non inizieranno mai, mi dà gli gnocchi e il pane fatto in casa e il piacere di cucinare sempre, mi dà perfino la televisione e uno scrittore che viene a leggere il suo libro nuovo in cucina a me e ai miei amici, mi dà gli altri abitanti del palazzo, il parquet, una famiglia, un corridoio, me stessa, mi dà tutta la gioia possibile.

carminia road, 53 | 2016
È la casa di Londra in cui non avrei mai potuto abitare se non mi fosse venuta l’idea di fare la ragazza alla pari. Ma lo sono diventata, quindi ho una stanza tutta per me con i vetri sul soffitto, il caminetto e la moquette. Una cucina con isola, un bagno a ogni piano. Eppure è una casa poco coesa, di persone che stanno fuori tutto il giorno, di me che leggo fiabe in inglese finché le bimbe non si addormentano succhiandomi il braccio. È la casa in cui capisco che sono felice di essere sorella, anche di chi non lo è con me.
ancora casa dei miei | 2016
Torno a casa dei miei, sono sconfitta e ho tanto caldo, perché è estate. Devo imparare di nuovo a dormire con i miei fratelli, a ragionare con i miei genitori, a fare i conti con il fatto che sono mancata e sono in mancanza nei loro confronti. Questa volta, nella casa mi sento l’ospite che deve farsi perdonare.
via antonio bondi, 61 | 2016
In questa casa posso starci perché per fortuna Nicoletta è in Brasile e io invece sono a Bologna per fare il primo tirocinio dopo la laurea. Lavoro in piazza Maggiore, che è una delle cose più belle che mi siano mai successe, ma in questa casa scopro un muscolo che poi dovrò esercitare moltissimo: quello che mi tiene in superficie. Sono in una stanza non mia, dove non ci sono cose mie alle pareti o sulle mensole o nei cassetti, e ci metto tanto per addormentarmi.
viale del risorgimento, 1 | 2016
Trovo questa casa per un paio di mesi, già lo so di doverci rimanere poco. Di questo posto mi piace la visuale completamente diversa che ho di Bologna, perché da questo lato della città non ho mai vissuto e dalle finestre si vedono porta Saragozza e le torri, e mi piace anche il bagno che ha tutte piastrelline blu. Però c’è una delle due coinquiline che ci mette così tanto a prepararsi in questo bagno carino che io una volta faccio pipì nel lavabo della cucina.
ancora una volta casa dei miei | 2017
Questa è la volta in cui torno dai miei per poter lavorare. Scopro una casa diversa, in cui torno la sera molto tardi e da cui mi allontano la mattina molto presto. Soprattutto, però, scopro i miei genitori per la prima volta.
via m. | 2017
Trovo casa a Milano in modo inaspettato. Non ho detto una stanza: ho detto una casa. Tra le cose belle dell’anno 2017, altrimenti noto per aver fatto cagare, c’è la casa di via m. e Pietro e Sara.

viale emilio caldara, 18 | 2018
È la casa potenziale ed è la casa della fatica. Ma quattro giorni dopo che ci ho messo piede so che sarà impossibile restarci. Ci provo per quattro mesi, ma è come quelle relazioni che ti fanno più male che bene. Che ti fanno male. Che ti fanno solo male. Quindi ci si lascia. Di questa casa, l’unica cosa che mi manca è la portinaia, la signora Daniela. Ciao signora Daniela.
ancora via m. | 2018-
Per gran parte sono sola, fuori e dentro casa, è estate, per la prima volta in tutta la mia vita sento la casa anche come spazio di scoperta di me stessa. Vedo la primavera e l’estate e l’autunno e l’inverno, e non mi capitava da tanto. Passo dalla stanza grande e bianca di Auste alla stanza colorata di Pietro a quella raccolta di Sara, dove alla fine mi fermo. E metto una pianta e metto delle mensole e una nuova rete al letto. E dormo, finalmente.

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