Un tram passa per Milano. Gli occhi di Inge Morath restituiscono il mio sguardo, fermi e decisi, all’altezza delle porte. Salgo sul 27 per andare in centro.

Tra le fotografe, potrebbe risultare la meno nota: Nan Goldin, Vivian Maier, Gerda Taro e Francesca Woodman potrebbero rubarne lo spazio, con i loro scatti inconfondibili e le loro vite eccezionali. A tutti gli effetti, Inge Morath ha un nome meno glamorous, una vita meno coinvolgente, un lascito meno seducente.
Eppure, notare Inge Morath tra la folla era particolarmente facile: non solo perché era una delle pochissime donne fotografe e fotoreporter, ma soprattutto per la sua statuaria altezza, i capelli corti, il viso pulito, l’abbigliamento semplice ma curato.

Nata da due scienziati nel 1923 a Graz, in Austria, e morta nel 2002 in un ospedale a Manhattan, Inge ha visto l’intero Novecento svolgersi attorno a lei e lo ha fermato attraverso un obbiettivo. «Una fotografa dal tocco poetico», come l’ha definita il New York Times, dotata di «quiet brilliance» secondo il Guardian, Inge Morath è riuscita a ritrarre celebrities e passanti, animali e soldati, donne a Teheran e llama a Times Square: lo ha fatto con la stessa attenzione, dando la stessa importanza, perché ogni soggetto è un racconto – e i racconti sono importanti.

Accetto come le persone presentano loro stesse. È una cosa che ha fascino – ed è il motivo per cui faccio ritratti.

Inge Morath

La storia di Inge inizia a causa e grazie al nazismo: dopo anni a spostarsi nei laboratori più importanti d’Europa, i genitori le garantiscono protezione e studi a Berlino, dove frequenta Lingue alla HU Berlin, aggiungendo al suo tedesco anche il francese, il rumeno e l’inglese – e, in futuro, anche cinese, russo e spagnolo. Inge Morath non nasce infatti fotografa: è prima di tutto giornalista, traduttrice ed editor, accompagna gli scatti dei colleghi con testi approfonditi e curati.

Non sono però solo le parole ad attrarla: a Berlino è infatti entrata in contatto con le avanguardie, grazie a una mostra d’arte voluta dai nazisti con l’intento di mettere in guardia i cittadini dalle aberrazioni compiute dagli artisti contemporanei, che non ritraggono una realtà migliore ma quella della loro mente. È a questa mostra che vede per la prima volta uno dei Blue Horse di Franz Marc e se ne innamora perdutamente. Il rapporto con l’arte continua costante lungo tutta la vita di Inge: tra le fotografie eseguite ad Alberto Giacometti nel suo studio da parte dei fotografi della Magnum, ci sono anche gli scatti di Inge Morath, che immortala in bianco e nero i suoi attrezzi e i suoi uomini scarni, allungati, pensosi.

Inge Morath e la Magnum

È grazie all’amicizia con il fotografo Ernst Haas che Inge inizia a scrivere testi di accompagnamento ai reportage, mentre lavorano entrambi alla rivista austriaca Heute. Con questa qualifica viene invitata, nel 1953, da Robert Capa ad unirsi all’agenzia Magnum: per un anno lavora come assistente di Henri Cartier-Bresson, continuando la mansione di redattrice e ricercatrice, fino a diventare membro effettivo dell’agenzia nel 1955 – è la prima donna a farne parte.

La sua carriera di fotografa inizia con scatti a feste ed eventi importanti per riviste come Vogue, Life o il Saturday Evening Post, ma la sua conoscenza plurilingue e lo spirito d’avventura fanno sì che presto affianchi gli altri fotografi in spedizioni in tutto il mondo. Prima di partire, Inge studia con attenzione la storia e la cultura del Paese che sta per visitare, allenando anche la propria lingua a scoprire, interloquire, domandare. Dalla Spagna all’Iran, dalla Russia all’Italia, dalla Romania alla Cina: Inge Morath viaggia e immortala, scopre la diversità e la fa parlare attraverso se stessa, senza utilizzare la macchina fotografica come un filtro ma, piuttosto, come una cornice che stacca un momento preciso dallo sfondo confuso della quotidianità.

Una famiglia di gipsy che posa davanti al proprio carrozzone in Irlanda, una festa tradizionale in Austria, una cooperativa contadina di donne in Romania, un uomo che cammina con sei ceste di vimini in equilibrio sulla testa per le calli di Venezia: Inge Morath esplora i meandri popolari dell’Europa con la stessa attenzione con cui frequenta la Persia, la Repubblica Popolare Cinese o i punti più nascosti e remoti dell’URSS. «Sono una viaggiatrice con una macchina fotografica» diceva Inge di se stessa, e non una fotografa che viaggia per lavoro, ma l’impegno che mette in ogni scatto svela la professionalità del suo occhio, che si trovasse a Gaza o a Capri. Quieta, osservatrice, instancabile: divertita mentre si arma di una delle due macchine che porta addosso e si protende per rubare uno scatto, oppure solitaria e cocentrata come in questo ritratto anonimo fattole durante un viaggio in Iran.

Più fotografavo, più ero felice. Sapevo che potevo finalmente esprimere le cose che volevo dire dando loro forma attraverso i miei occhi.

Inge Morath, dal sito della Fondazione (traduzione mia)

Ma non è dall’altra parte del mondo che avviene l’evento trasformante della vita di Inge: siamo invece sul set di The Misfits, è il 1960, e i grandi reporter della Magnum sono stati chiamati per cogliere attori e attrici nelle pause tra una scena e l’altra. Tra i nove fotografi selezionati, ci sono anche Inge Morath; Eve Arnold, che immortala una Marilyn dai colori soft e apparentemente leggera; Henri Cartier-Bresson, che cattura controluce l’attore Montgomery Clift (per la maggior parte delle riprese ubriaco e sotto l’effetto di droghe) e persino Inge Morath con Clark Gable; Elliot Erwitt, che fotografa il cast in gruppo – e realizza un ritratto mosso a Marilyn, che penso sia la foto più bella che le sia mai stata fatta. In mezzo a loro, si muove lo sceneggiatore del film, Arthur Miller, all’epoca ancora marito di Marilyn Monroe, ignaro che tutti loro non saranno mai più ritratti assieme: a meno di due settimane dalla fine delle riprese Clark Gable muore; nel gennaio del 1961 Arthur e Marilyn si separano; a febbraio esce The Misfits; nell’agosto del 1962 Marilyn si suicida.
Pochi mesi prima, a febbraio, aveva invece avuto inizio il matrimonio tra Arthur Miller e Inge Morath, che durerà fino alla morte di lei, nel 2002.

Questo è l’evento che cambia il corso della sua vita: lascia Parigi e l’Europa, si trasferisce in Connecticut, diventa madre, inizia a lavorare a quattro mani con Arthur Miller su libri che uniscono fotografie e parole, racconti in immagini e in frasi.
Viaggia in Cina e in Russia con Arthur, ma si dedica anche ai ritratti – Alberto Giacometti, Philip Roth, Hans Arp – e talvolta scatta anche interni, come la casa di Pasternak, la collezione di libri di Pushkin, la casa di Chekhov o la camera da letto di Mao Tse Tung.

Nel 2002, poco prima di morire, parte con la regista Regina Strassegger per visitare il confine tra Austria e Slovenia, nel bundensland della Stiria: qui ha avuto origine la sua famiglia, qui si trova un luogo a cui non aveva mai smesso di pensare e in cui i conflitti erano continuati ben oltre la Seconda Guerra Mondiale, prolungandosi fino al 1991 con le guerre iugoslave. Da questo viaggio nascono un libro, Last Journey (2002), e il film di Strassegger Border Space (2002): qualche mese dopo Inge Morath muore in ospedale a causa di un linfoma.

She made poetry out of people and their places over half a century.

Arthur Miller, al New York Times

Che fotografi in bianco e nero o a colori, una tecnica in cui era stata pioniera, Inge Morath dirige con delicatezza i nostri occhi in alto, verso i palazzi, in basso, verso i piedi che danzano, e poi in un angolo della strada per seguire una bambina, e ancora ci trasporta nel mezzo di un gruppo di beduini, poi nel camerino di un torero, poi lungo il corso del Danubio. Senza stancarsi, senza smettere di guardare, senza diminuire la propria meraviglia per chi abita il mondo.

Romeria del Rocio, Seville, Spain, 1955 © Inge Morath / Magnum Photos

Per approfondire la vita e il lavoro di Inge Morath, consiglio il sito della Fondazione a lei dedicata.

primo blocco di foto, da sx a dx: actress Jayne Mansfield taking a bath, 1959 © Inge Morath Foundation / Magnum Photos || Nomad women in Teheran, 1956 © Inge Morath / Magnum Photos || Young girl on horseback during Romería de El Rocío. Andalusia, Spain, 1955 © Inge Morath / Magnum Photos || Reno, Nevada, 1960 © Inge Morath Foundation / Magnum Photos

secondo blocco di foto, da sx a dx: Untitled from the Mask series, 1961 © Inge Morath / Magnum Photos || Inge Morath fotografa da Yul Brynner sul set di The Journey, 1959 © Inge Morath / Magnum Photos

terzo blocco di foto, dall’alto in basso: Soldiers on Yuan Dynasty Sculpture at Maitreya, West Lake, near Hangzhou, China, 1978 © Inge Morath || Autoritratto, 2002 © Inge Morath Foundation / Magnum Photos

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