Stanza #2. Patrizia Cavalli, a casa

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Incontro Patrizia Cavalli nel 2013, quando nelle biblioteche di Bologna prendo in prestito dieci titoli alla volta oppure mi siedo a terra tra gli scaffali e leggo un libro dopo l’altro, allungando la mano sopra la testa. Creo una cartella su Drive chiamata “Patrizia Cavalli” per raccogliere le fotografie alle sue poesie, che scatto con cura da archivista in vari punti della casa di via masi – sono ancora riconoscibili le bandierine sopra il tavolo da pranzo, il parquet tarlato della mia camera, il mobile verde troppo acceso.

È anche l’anno in cui seguo due corsi di poesia all’università: in uno, quello di poesia italiana contemporanea, gli autori che studiamo sono tutti uomini, tutti canone, tutti blasonati; nell’altro, conosco Anne Carson ed Elisa Biagini e qualcosa necessariamente cambia. Con Patrizia Cavalli, si crea la triade attorno a cui ancora oggi ruoto quando ho bisogno di rimettermi in asse: hanno parole dritte e allo stesso tempo arcuate, che sanno aggirare ma solo per avere una prospettiva migliore, che descrivono e insieme immaginano, che indicano per suggerire. È una potenza, più che un potere, che ha a che fare con il saper stare in ciò che manca.
Da allora Cavalli mi abita dentro, una cosa tra me e me, e inizio a parlarne con il mondo molto tardi: la prima volta è in terapia, quando muore.

È a Roma è di mattina è a casa mia
è tra le undici e le undici e tre quarti,
sale dal cuore e va fino alla testa
si ferma soprattutto dietro gli occhi

Patrizia Cavalli, da L’io singolare proprio mio

La casa abitata

Pochi mesi prima avevo parlato con la mia psicologa di bell hooks e Joan Didion, mancate il 15 e il 23 dicembre 2021, perché che sentivo qualcosa di personale, che non riuscivo a definire, si era rotto. Con Cavalli è successa la stessa cosa: è il 21 giugno 2022, fa caldo, occupo la seduta per dire quanto mi mancherà, che è la persona che mi ha insegnato a parlare d’amore, ma ogni volta (due) che ho regalato dei suoi libri non è mai andata a buon fine – so Patrizia Cavalli of me –, oppure quanto è bello Con passi giapponesi e il fatto che ci sia un intero pezzo dedicato alla sua casa in cui parla di poltrone, sedie e divani (purtroppo la mia terapista ogni tanto mi deve stare a sentire parlare di sedie e design delle sedute).

Di questa casa, delle sue stanze e degli oggetti che le riempiono scrive Giorgio Agamben su Quodlibet, due mesi dopo che Patrizia Cavalli inizia a mancarci:

La casa di Patrizia – ma è davvero possibile separare Patrizia dalla sua casa, quella casa che scomparirà ora per sempre insieme alle mille cose che la riempivano, cianfrusaglie o oggetti meravigliosi che erano il mondo di Patrizia – erano, cioè, in qualche modo Patrizia, perché il mondo, il corpo e la mente non si possono separare.

Giorgio Agamben, Per Patrizia Cavalli

Ma è un anno dopo, nel 2023, che entro davvero in casa di Cavalli, e lo faccio grazie al cinema. La prima volta è con il documentario Le mie poesie non cambieranno il mondo (Fandango / Rai Documentari), che riprende il titolo della sua prima raccolta poetica per Einaudi, nel 1974.
La maggior parte del tempo Patrizia Cavalli è ripresa all’interno, con delle interruzioni di materiale d’archivio in cui è intervistata, si esibisce in letture più o meno teatrali, appare in televisione. La casa è come uno sfondo, una scenografia predisposta: si intravedono dei dettagli, ma la camera è per lo più ferma [rileggendo, mi sono chiesta di quale stanza stessi parlando, poi ho riso] su Cavalli che parla. La casa è abitata, gli oggetti utilizzati – il bicchiere offerto agli ospiti, la sedia spostata per fare spazio, il telefono ora squilla, le imposte sono da aprire un poco di più – e ogni cosa è al suo posto proprio perché fa parte di un sistema ancora in funzione.

Quante tentazioni attraverso
nel percorso tra la camera
e la cucina, tra la cucina
e il cesso. Una macchia
sul muro, un pezzo di carta
caduto in terra, un bicchiere d’acqua,
un guardar dalla finestra,
ciao alla vicina,
una carezza alla gattina.
Così dimentico sempre
l’idea principale, mi perdo
per strada, mi scompongo
giorno per giorno ed è vano
tentare qualsiasi ritorno.

Patrizia Cavalli, da L’e mie poesie non cambieranno il mondo

La casa vuota

È con il corto How a child becomes a poet di Céline Sciamma che Patrizia Cavalli ci si mostra davvero, proprio nel suo non esserci (più) sulla scena. Un bisogno nato da un’emergenza, quella di immortalare la casa prima che sia toccata, prima che venga svuotata e venduta e non sia più sua; nato anche dal desiderio di fermare non tanto nel tempo ma nello spazio un’esistenza devota all’accogliere, al custodire, al comporre, in cui i mobili le stoviglie i libri non sono oggetti di scena ma compagni e attori. Inizialmente quasi lavoro d’archivio per ricreare e mantenere la mappatura della casa, Céline Sciamma lo trasforma in corto quando scopre il legame intimo e d’affetto di Cavalli con il cinema – la prima poesia che abbia scritto è If Kim Novak were to die e incastonata tra le stanze appare Novak da un vecchio film di cui non ricordo il titolo che scende le scale splendida da togliere il fiato e battendo le mani, battito che ci accompagna per il resto del corto, creando un’immagine che ora lego indissolubilmente a questa poesia (sì, è una di quelle che fotografavo dieci anni fa).

Sciamma si muove quasi liquida per la casa e si sofferma sui dettagli: inquadra, osserva, si avvicina e si allontana, misura a passi lo spazio vuoto cercando la luce più morbida e la distanza corretta. È un compito malinconico e di massima importanza perché, ora che non c’è Patrizia Cavalli a dare loro un motivo e un ordine, gli oggetti sono allo stesso tempo muti, opachi e preziosissimi: le ultime tracce rimaste di un racconto tridimensionale, piccole storie di affetto e di predilezione, di necessità e di vezzo, un documento in lingua morta che vorremmo far parlare ancora.

Anima piena, anima salotto,
più piena, sempre piena, lacrimosa.
Anima quieta che resta nella stanza,
chiusa tenace assente spaventosa.

Patrizia Cavalli, da Sempre aperto teatro

Il modo in cui possiamo aggirarci ancora tra le stanze di Patrizia Cavalli è con le fotografie di Dino Ignani, che come Céline Sciamma ha immortalato lo spazio rimasto vuoto, e con la mostra Il sospetto del paradiso che raccoglie, insieme agli altri documenti, anche duecento scatti di casa Cavalli fatti da Lorenzo Castore.

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