Questa è parte di una lettera d’amore. Ma non per questo ne contiene meno, di amore.

Seletti nasce vicino Mantova, a Cicognara – un nome che si addice benissimo a un paesino da racconto per bambini o a quello di un documentario in bianco e nero sul primo proletariato italiano. Se la dovessi cercare su Google Maps, vedresti che l’unica immagine disponibile di Cicognara è un gatto con la coda dritta e gli occhi dorati, che è uno dei nuovi oggetti–simbolo di Seletti, e scopriresti anche che Cicognara è proprio al confine tra Lombardia ed Emilia–Romagna (che è un po’ dove mi sento io), ed è circondata da frazioni e paesini che hanno nomi da racconto e da documentario assieme, tipo Oratorio, Fenilgrosso, Casalbellotto, Fossacaprara, Ponteterra, Isolone, Buzzoletto, Camminata, Quattrocase.

Forse a Cicognara di case ce ne sono cinque, e una è quella del Signor Seletti, che è un uomo che ci vede lungo, molto più che oltre il confine regionale, così tanto lontano che è tra i primi a intuire che è conveniente importare prodotti dalla Cina e rivenderli sul mercato italiano. Così fa arrivare stoviglie e vasellame, bicchieri e tovaglie, pentolini e battipanni, e inizia a girare i mercati della bassa padana.

Stefano Seletti, poetico quotidiano

Una ventina d’anni dopo, all’uomo d’affari Seletti succede il figlio Stefano, che (ho controllato di persona) è sorridente, energico, posato – e sogna un sacco. E decide di cambiare la direzione di quella che, da piccola impresa familiare, è diventata un’azienda di import: lo fa puntando sulla creatività e la creazione. La produzione di Seletti continua a essere in Cina, ma si investe sulle tecnologie, sulla formazione e sull’ecologia (tutti i tappeti sono in poliestere riciclato, per dire, e stampati con un metodo che per ora usano solo loro) e fonda un laboratorio interno, il Selab (che è Seletti + Laboratorio), in cui comincia a muovere i primi passi con la sorella Miria e gli altri creativi nel mondo della produzione, dando vita a collezioni che non potevano esistere se non lì, perché sono di confine e di contaminazione, di sogni e di visioni.

Come Estetico Quotidiano, che propone i classici piattini e bicchierini di plastica o le teglie di alluminio usa e getta, ma li fa in ceramica bianca e li rifinisce alla perfezione: tutto quello che porteresti a un pic nic, ma che dopo non butti, perché sono fatti per restare. Il cestino di vimini? La scatoletta di sardine? Certo, anche quelli. Sempre in ceramica immacolata, la stessa del servizio buono con cui la mamma e la zia apparecchiano la tavola, loro che sono della generazione che ha scoperto la plastica il supermercato l’usa e getta incurante – la generazione che ha (ri)scoperto lo spreco, quasi – e invece Stefano ci tiene, che le cose rimangano, anche sulla tavola. Una mezza linguaccia divertita e consapevole, che dice siamo una generazione diversa ma lo so che abbiamo qualcosa in comune e per sopravvivere lo devo trasformare in qualcosa d’altro. In qualcosa di così inaspettato che, a proposito di supermercati, Esselunga lo vuole e lo propone come premio di una delle raccolte punti più di successo.

E intanto, mentre tutto questo accade, comincia un gioco di attrazioni fenomenali: da un lato, Seletti richiama designer italiani e internazionali tra i più sfacciati e inventivi, dando loro i fondi e l’entusiasmo, la possibilità di mettersi in gioco e di giocare – con i linguaggi i materiali il pubblico; dall’altro sono i musei, come il MoMA di New York, a chiedere ed esporre gli oggetti di Seletti, che comincia a essere riconosciuto come brand di design. Quello che interessa a Stefano Seletti, però, è una cosa un po’ più complessa che l’affermazione nel mondo del design o dell’imprenditoria, ed è quella che lui chiama (r)evoluzione. E, per farla, ha ben in mente un paio di nomi a cui rivolgersi.

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Parte della collezione Kintsugi di Marcantonio per Seletti

Marcantonio, al cuore del design

Tra i creativi – perché non tutti sono designer per definizione o vocazione – che catturano l’attenzione di Seletti c’è Marcantonio, che ha un nome bellissimo pure lui: Marcantonio Raimondi Malerba. Lui è di Massalombarda, che a dispetto del nome non è in Lombardia come Cicognara, e nemmeno vicino al confine, ma si trova nei dintorni di Ravenna. Lo studio di Marcantonio, però, che più che uno studio è un magazzino e un’officina insieme, quasi una bottega, è a Cesena. Gli piace la piadina del chiosco, guida un furgone sgangherato, è altissimo e timidissimo (e infatti alla parata del Design Pride non l’ho riconosciuto anche se lui ci guardava super sorridente e ancora mi sento in colpa). Tra le sue ultime creazioni, c’è la collezione Kintusgi, che in parte omaggia l’omonima arte orientale in cui viene utilizzata una lega preziosa per riassemblare i pezzi di un oggetto rotto, di solito vasellame, e in parte strizza l’occhio a un’altra delle più conosciute collezioni da tavola di Seletti, Hybrid, in cui piatti tazzine e vassoi sono divisi da una linea immaginaria: da un lato metà di un piatto tradizionale italiano, di quelli proprio da nonna e pranzo della domenica, dall’altro metà di un piatto decorato a motivi orientali.

Due tradizioni diverse, due cerimonie diverse del mettersi a tavola, due anime diverse – quelle che compongono e coesistono in Seletti, in fondo. Quindi, nei piattini e nelle tazzine e nei vassoi di Kintusgi, troviamo la perizia e la precisione orientale, che sono care a uno scultore come Marcantonio, ma anche il gusto di avere un oggetto bello, quasi cerimoniale, con cui servire a tavola e la compresenza di più anime e influenze – questa volta non perfettamente allineate come in Hybrid, ma combaciate.

Marcantonio non si limita a prendere l’anima e la filosofia del kintsugi, secondo cui un oggetto non viene impreziosito solo perché, banalmente, si è aggiunto per esempio dell’oro, ma soprattutto perché, invece, ne hai aumentato la vita e la storia permettendogli di durare ancora e facendo splendere le sue imperfezioni come parte di un processo, di un qualcosa che è successo – perché nessuno è indenne dalle rotture, ma c’è un modo bellissimo per rimettere assieme i (propri) pezzi.

Con questo Kintsugi, fa una cosa ancora diversa: quelli che riassembla non sono pezzi dello stesso oggetto, ma di oggetti diversi, di piatti tazzine e vassoi diversi per stile o decorazione o provenienza, che avvicina connette e collega con l’oro puro (non per modo di dire: il 24 carati è l’oro puro) per crearne uno nuovo, mai visto, mai esistito prima: unico.

Per le volte che hai detto o pensato che non eri (ancora) in grado di capire come far combaciare tutti i pezzi della tua vita: è perché probabilmente è arrivato il momento di creare qualcosa di nuovo. Qualcosa che non rinnega tutte le parti di cui sei composto, tutte le tradizioni e le influenze, ma è in grado di metterle in contatto in modo diverso. E, soprattutto, non deve risultare perfetto – non è quello l’intento. Ma è sicuramente qualcosa che prima non c’era e che non potrebbe esserci senza di te.

Una playlist per chi è tenuto assieme dall’oro e una per chi scrive ancora lettere d’amore.

One thought on “Kintsugi come metafora: l’arte della tavola di Seletti

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