Quest’anno prova scientificamente come il mio leggere proceda a ondate e sia influenzato da fattori esterni quali la presenza o meno del tram 27 per andare a lavoro. Ho iniziato a camminare molto e ad ascoltare più musica, ho chiesto consigli di lettura su Instagram e mi sono fatta influenzare da Twitter. Questo è quello che ne è uscito:

Chimamanda Ngozi Adichie, The Thing Around Your Neck

La Chimamanda, come la chiama confidenzialmente Pietro facendomi pensare un po’ alla Tina o alla Rosi, la scopro per la prima volta grazie a una TED Talk su cosa significhi e comporti essere femminista oggi. Mi rendo conto (con calma) che si tratta della stessa scrittrice di cui Pietro mi parla da tempo (tipo anni?) e decido di leggerla come autrice.

I racconti di questa raccolta sono forti, ben calibrati, alternati tra loro perché partenze, lutti, incontri e lotte abbiano il giusto spazio e peso. Ci sono uomini, ragazzi, bambine, vecchie, ci sono voci che parlano e altre che si fanno raccontare. Come la Lahiri, che ho letto all’inizio di quest’anno, la Chimamanda è abilissima con le voci, perfetta con i dettagli: le storie che traccia possono anche essere appena accennate, ma sono sempre in grado di far intravedere il quadro politico, storico e sociale più grande.

How can you love somebody and yet want to manage the amount of happiness that person is allowed?
Chimamanda Ngozi Adichie, The Shivering p. 153

Dolly Alderton, Hopeless Romantic

Dopo aver sentito chiunque e sua cugina di terzo grado parlare del podcast The High Low (lo trovi su Spotify, iTunes, acast, anche se io lo ascolto da Google Podcast), ho deciso di dargli una chance. Ho ascoltato un episodio, mi sono annoiata, l’ho accantonato. Quest’estate, nella solitudine immensa di una Milano deserta, a lavoro e a casa e nelle strade, l’ho ricominciato. E mi sono innamorata della profondità di Dolly e Pandora e della naturalezza con cui lasciano che arrivi in superficie.

Quando Dolly ha annunciato di aver pubblicato con the pound project un piccolo saggio sul romanticismo e avendo io imparato quando poco romantica sia lei, ho deciso di finanziare il progetto di Hopeless Romantic. Due righe e mi ero già tremendamente innamorata di un libro sul fatto che a volte il romanticismo si erediti, ci contagi, non dipenda davvero da noi. Ma, soprattutto, mi ha dato la scusa perfetta per a) piangere b) iniziare a scrivere io qualcosa che apparirà su segnetti tra poco c) entrambe contemporaneamente. Quando un saggio ti fa venire voglia di scrivere, allora è un buon saggio.

Jami Attenberg, All Grown Up

Un giorno che a lavoro ero più nervosa del solito ho visto che da verso libri ci sarebbe stata Jami Attenberg a presentare il suo nuovo libro, di cui avevo sentito parlare giusto qualche giorno prima in un episodio di The High Low.  Con l’aiuto di ventimila mezzi (via Mecenate, I didn’t really enjoy you) sono arrivata in tempo per essere l’unica non ebrea circondata da ebrei uomini donne mediogiovani che si conoscevano tutti.

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Jami Attenberg alla presentazione del suo libro Da grande / All Grown Up da verso libri, Milano

Jami è stata meravigliosa nel modo elegante in cui glissa il dover rispondere a chi le chiede «Ma allora qual è il segreto per diventare adulti, quando lo si diventa, cosa serve», nelle piccole ovvietà come «We don’t get better right away» (Non si migliora / ci si sente meglio di colpo) che però quando senti dire da una persona autorevole e che ti sta piacendo sembrano rivelazioni di quelle che capitano una volta ogni millennio e nelle cose che la rivelano nella sua anima da narratrice come «If you wait long enough, everything turns out funny» (Se aspetti abbastanza, puoi trovare un lato divertente in qualsiasi cosa). Ancora non sapevo, però, che All Grown Up (in italiano edito dalla Giuntina con il titolo di Da grande) sarebbe stato il libro perfetto per questo mio anno. Il primo che passo da single dal 2010, con un lavoro vero, con troppi traslochi per tenerne conto, con il rapporto con mia madre che si trasforma ancora, con amici vecchi e quelli nuovi, con relazioni che finiscono ancora prima di cominciare, con me che divento me. E questo libro parla nell’anno giusto alla me stessa e mi dice cose come:

I always reel for a few days after I witness someone’s personal truth. I walk around feeling like I’m wearing their essence like a tight sweater. […] I’m free. And then I buy a train ticket up north for Thanksgiving, because I miss them all so goddamn much, and if I don’t see them again soon, touch them, and talk to them, I’ll never survive this life.
Jami Attenberg, p. 165

Edward Bunker, Little Boy Blue

È stato il regalo di compleanno di Maria Vittoria, che mi sono portata nello zaino nei miei tre giorni berlinesi di settembre. Duro e terribile come poche altre cose io abbia mai letto, Little Boy Blue è tutto ciò che è giusto che la letteratura faccia: un protagonista con cui non puoi  eticamente empatizzare ma che è raccontato splendidamente (ricordi Humbert Humbert di Lolita o, anche se in modo diverso, il Sorel de Il rosso e il nero o Moreau ne L’educazione sentimentale?), che non chiede giustificazioni o sconti al lettore ma che allo stesso tempo ha bisogno della sua testimonianza.

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Per riuscire a finire Little Boy Blue ho dovuto aspettare il sole e i colori.

Charly Cox, She Must Be Mad

Sempre presa nel mio periodo podcast, mi sono imbattuta in un episodio di At Home With che non mi aspettavo. Si è parlato molto poco di casa, mi è sembrato, ma non appena Charly ha letto una delle sue poesie, una di sesso, mi sono resa conto che ero immobile con le dita sul tavolo e completamente da un’altra parte, dentro quella voce e quel ritmo. Ho fermato l’audio, ho aperto Amazon e ho acquistato She Must Be Mad. Poi sono tornata all’episodio.

In queste poesie c’è tutto: la malattia mentale, il bisogno d’amore, la crescita, l’eccitazione sessuale e quella mentale, la deformazione del corpo, la morte. Tutto quello di cui si deve parlare e che ritrovo nei libri che leggo e rileggo e porto con me. Fatto questa volta, però, con la lingua che, ho scoperto negli ultimi anni, costituisce il mio linguaggio per parlare di e addirittura pensare queste tematiche: l’inglese. Come molti amori sono nati per me quando ho sentito la voce parlare (se stessa), se non avessi sentito Charly dare ritmo e corpo alle sue parole non credo avrei mai voluto leggere questo libro. E, invece, grazie a dio per le voci.

The best sort of revenge is to be kind to yourself
To burden yourself with living another day
Charly Cox, I prescribe you this da She Must Be Mad

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Quando un libro è così bello che devi fermarti per strada prima di arrivare a casa per finire di leggerlo assolutamente.

Bohumil Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa

Dopo aver letto, qualcosa come quindici anni fa, Ho servito il re d’Inghilterra e Treni strettamente sorvegliati all’inizio del 2018, io e l’architetto abbiamo iniziato Una solitudine troppo rumorosa. A lui non è piaciuto, a me da impazzire. La storia mi parla, ma è la lingua di Hrabal e ancora di più la traduzione magnifica di Sergio Corduas che è in grado di far diventare davvero parlante a me un libro ceco del 1965. Perché, come dice il protagonista:

Ogni giorno io sbigottisco dieci volte, come ho potuto allontanarmi così da me stesso. Così alienato e derubato ritorno anche dal lavoro, silenzioso e in profonda meditazione cammino per le vie, oltrepasso i tram e le auto e i passanti nella nube dei libri che ho trovato quel giorno e che porto a casa nella borsa, passo sognante col verde senza nemmeno accorgermene, non urto contro i lampioni né contro i passanti, soltanto cammino e puzzo di birra e di sporcizia, ma sorrido, perché in borsa porto libri dai quali mi aspetto che a sera da loro apprenderò su me stesso qualche cosa che ancora non so.
Bohumil Hrabal, p. 12

Kate Tempest, Hold Your Own

Dopo aver amato Let Them Eat Chaos, non potevo non voler leggere il nuovo libro di Kate Tempest. Hold Your Own (che è uscito anche con testo italiano a fronte) è un poemetto in cui quello che Kate ha ben saputo fare in LTEC – e che me l’ha fatto amare così tanto –  torna di prepotenza e diventa struttura portante: la presenza di più voci, tutte autorevoli allo stesso modo nel procedere della narrazione e, anzi, qui essenziali perché questa possa effettivamente evolversi.

Perché Hold Your Own prende come pretesto il mito di Tiresia per poter far parlare un ragazzino, una donna, un uomo, un profeta. E con questo intendo: le loro visioni, i loro corpi, i loro pensieri sono fatti di parole diverse, prendono forme diverse e si completano e allontanano e richiamano – perché una vita è troppo poco per essere una cosa sola.

The boy in her is strong some days
And calls out for a girl to touch
The girl in her is full of rage
And craves the things she hates so much. //
She must be more than sex and body?
Sex and body’s all she’s got.
Like all hard lessons, learn it softly.
It’s only until it’s not.
Kate Tempest, p. 64

John Williams, Stoner

Giovanni mi ha scritto una sera dicendomi «Devi assolutamente prendere questo libro perché è la cosa più Francesca che ho letto». Quindi: preso. E, ovviamente, amato. Perché prima di tutto la storia di Stoner è quella di un uomo normale, che ogni quattro pagine potrebbe diventare l’eroe del romanzo perfetto e invece – continua semplicemente a vivere.

E perché il tempo passa e con lui il linguaggio si evolve, si adegua, cresce con Stoner stesso, passando da brevi frasi pure e descrittive a riflessioni profonde, congetture, visioni complete e complesse. Alla fine del libro mi sono trovata come alla fine di The Remains of the Day di Kazuo Ishiguro: completamente conquistata e terribilmente in lacrime. Meraviglioso nella sua perfetta costruzione.

One thought on “The Book Edit | #3, 18

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